In questi ultimi giorni vi è in rete un accesissimo dibattito in merito all’opportunità o meno dell’introduzione in Italia della web tax.
Si tratta di un emendamento presentato all’interno del Disegno di Legge di Stabilità 2014 “Direzione Italia”.
La Commissione Bilancio della Camera ha approvato il 18 Dicembre u.s. il testo definitivo così come twittato al popolo del web da Francesco Boccia, primo promotore della web tax.
Al 1° comma è previsto, per i soggetti passivi IVA, l’obbligo di acquisto di servizi di pubblicità online e di link sponsorizzati esclusivamente da soggetti titolari di una partita IVA italiana.
Il comma 2°, al momento e senza ulteriori chiarimenti da parte del legislatore, mi pare, invece, piuttosto incomprensibile poiché risulta evidente l’impossibilità di distinguere “la rete italiana” dalla rete in generale.
La rete è la rete, cioè la totalità del web, e “i risultati dei motori di ricerca visualizzabili sul territorio italiano” sono tutti quelli del web, quindi tutti quelli visualizzabili da qualsiasi altra parte del mondo.
Tutto ciò ha suscitato tra me ed i miei collaboratori più di una perplessità, dalla più banale: se Google o Facebook non aprissero partita IVA in Italia che succede? Non si compra più pubblicità online? A qualche ragionamento leggermente più articolato: se io mi trovo in Francia e acquisto pubblicità su Google ma voglio che questa pubblicità sia rivolta ad un pubblico italiano che succede?
Ciò detto ho deciso di scrivere questo post perché il dubbio più grosso che mi è sorto leggendo il testo dell’emendamento è che la ratio della web tax non sia, come potrebbe sembrare, quello di generare un gettito IVA.
Se così fosse, peraltro, la web tax così concepita sarebbe perfettamente inutile in quanto già oggi, in caso di vendite B2B, l’IVA sui servizi prestati per via elettronica è dovuta nel Paese di destinazione.
Ritengo, invece, che l’intento della web tax sia quello di fornire una norma antielusiva dedicata ai colossi dell’advertising online – in primis Google – i quali, com’è noto, ponendo in essere triangolazioni di negozi giuridici, seppur formalmente del tutto legali, ottengono un ingente risparmio di imposta il quale, tuttavia, secondo il legislatore tributario italiano, è indebito in quanto tali negozi sono posti in essere senza valide ragioni economiche ma con l’unico scopo di ottenere, appunto, un risparmio di imposta.
L’escamotage alla base della web tax sembrerebbe, pertanto, quello di (obbligare a) far aprire una partita IVA italiana al solo scopo di dimostrare, successivamente, la presenza di una stabile organizzazione in Italia così da poter applicare ad essa l’imposizione sul reddito secondo le norme italiane.
Il focus, quindi, si sposta dall’imposizione IVA – imposta comunitaria sul valore aggiunto, che niente ha a che vedere con l’imposizione sui redditi – alla vera e propria imposizione sui redditi e lo scopo della web tax sembrerebbe proprio quello di riportare a tassazione in Italia redditi che Google ed altri colossi simili sottraggono veicolandoli in paradisi fiscali, cioè di evitare un evidente caso di elusione fiscale da parte di Google e compagnia per cifre che certamente non possono passare inosservate.
Se realmente l’intento dei promotori della web tax è questo, a personale opinione di chi scrive, la sua introduzione è del tutto inutile se solo si sapessero leggere e interpretare le norme tributarie già presenti nel nostro ordinamento da diversi decenni.
Esiste già, infatti, nel sistema tributario italiano una norma antielusiva per eccellenza che è l’articolo 37-bis , contenuto nel d.p.r. n.600/1973, cioè il decreto sull’accertamento dei redditi, quindi una norma direttamente applicabile proprio ai casi di imposizione diretta, ovvero di imposizione sui redditi.
Il 1° comma di tale norma, pur non trattandosi di una vera e propria clausola generale antielusiva, detta comunque una serie di condizioni in base alla sussistenza delle quali l’elusione assume rilievo e il Fisco (comma 2°) può disconoscere eventuali vantaggi fiscali conseguiti ed applicare le imposte determinate in base alle disposizioni eluse.
Tali condizioni sono: l’aggiramento di un obbligo o di un divieto, l’assenza di valide ragioni economiche nel compimento delle operazioni poste in essere ed il conseguimento di un vantaggio fiscale altrimenti indebito.
Aggiungiamo, inoltre, che, sebbene sia vero che con l’art. 37-bis il legislatore tributario non ha posto una clausola generale antielusiva, ormai per il Fisco è prassi utilizzare (talvolta anche in modo non pertinente) il tema dell’abuso del diritto come clausola generale antielusiva per contrastare definitivamente qualsiasi negozio posto in essere che sia atto a generare un risparmio di imposta.
Pertanto la mia opinione personale – se non mi sono persa qualche elemento per strada, data la grande confusione che in rete si è venuta a creare su questa questione – è che:
se l’introduzione della web tax ha un intento antielusivo, come tale essa è ridondante ed inutile potendosi applicare norme antielusive già esistenti nell’ordinamento tributario italiano.
C’è semmai da chiedersi perché a nessuno questo sia venuto in mente e a tale proposito dichiaro aperto il dibattito.
Se qualcuno vuole dire la sua, arricchire la mia personale analisi della questione con proprie considerazioni, portare altri riferimenti diversi dai miei è il benvenuto ed ha a disposizione lo spazio dei commenti qua sotto per farlo; ricordate che il blog di media-consultant è uno spazio aperto.
Ringrazio già da adesso tutti quelli che vorranno lasciare un feedback.
Per approfondire il tema dell’elusione fiscale e della clausola generale antiabuso potete leggere qualcosa qui
Immagini 401(K) 2012 ; Pixabay
Giorgio Marchetti dice
L’abuso di diritto è già di per sé un costrutto giuridico su cui riflettere (e di difficile digestione per un liberale).
Nella dizione “valide ragioni economiche”, per una società giuridica a scopo di lucro, rientra pienamente la ricerca delle migliori condizioni fiscali legalmente perseguibili, tanto più se tra le opzioni c’è il Fisco italiano, vessatorio e abnorme a prescindere da qualsiasi confronti con paradisi fiscali. L’Austria non è certo un’isola caraibica, tuttavia la disparità fiscale con l’Italia è palese.
Come shareholder (o stockholder) di una compagnia multinazionale solleverei dall’incarico il management che domiciliasse fiscalmente l’azienda in Italia piuttosto che in Olanda.
Per quanto mi riguarda, qualsiasi sia la ratio della proposta, la conclusione è la seguente:
Boccia? Bocciato!